Quello che segue è un post scritto il 28/12/2015.
Parla del mio esaurimento nervoso, di quando ho visto l’inferno e ne sono uscita. Parla del momento in cui ho ricominciato a vivere, solo che allora non lo capivo ancora.
Prossimo mese saranno cinque anni tondi tondi da quel giorno che ha cambiato tutto. Non mi ricordo la data, era fine aprile. Mi ricordo perfettamente cosa accadde e i giorni dopo. Non ricordo quando ho scritto questo pezzo, ma sono contenta di averlo fatto.
Di recente ho rivisto il film Mangia Prega Ama. È un vecchio film, uscito parecchio tempo fa. Lo vidi la prima volta in ritardo rispetto all’uscita cinematografica. Vivo un po’ fuori dal mondo e arrivo sempre in differita.
Comunque, è l’unico film che ho sul mio mac e visto che non mi andava la connessione in casa e che vivo senza tv da anni, l’ho visto a loop per qualche giorno.
Sorvolo sulla serie di luoghi comuni con cui vengono descritti i vari posti del mondo (Italia, India, Cambogia), perché questa non è una recensione. In mezzo a questa serie di cose scontate, che se venissero tolte farebbero del film sicuramente un lavoro migliore, ci sono alcuni punti interessanti.
Da buddista quale sono, le scene in cui pregano la guru mi fanno venire il sangue al cervello, però tolto questo aspetto, tutto quello che viene detto sulla meditazione è importante.
Ad un certo punto del suo viaggio in India, la protagonista si ritrova sul tetto dell’ashram dove soggiorna insieme a Richard, un texano anche lui andato lì per meditare e ritrovare sé stesso. Gli racconta la sua storia e alla fine conclude che deve smettere di aspettare che il suo ex marito la perdoni, che lei deve perdonare sé stessa. E così si ritrova in una sorta di visione, a ballare con il suo ex marito che le dice che gli manca. E qui la risposta di lei, che mi ha colpito, ma non la prima volta, ma alla duecentesima volta che l’ho sentita: va bene così, mandami amore e luce ogni volta che mi pensi e poi dimentica.
Ci sono cose che sentiamo miliardi di volte, e poi improvvisamente fanno breccia, ci illuminano, ci fanno vedere nuove strade.
Spesso tra praticanti diciamo mandare daimoku è difficile spiegare a parole cosa vuol dire. Credo sia l’equivalente del mandami amore e luce, e fino a qui niente di nuovo.
E poi dimentica. Dimentica, lascia andare, non importa cosa capiterà da quel momento in poi, importa cosa stai facendo nell’attimo presente. Il passato è passato, il futuro non lo conosciamo (possiamo cercare di costruircelo al meglio, ma di fatto rimane un’incognita).
Ci rimane il presente. E non c’è causa più bella, non c’è seme migliore da coltivare, se non l’amore verso noi stessi, verso gli altri.
Quando rifletto sulle persone a cui mandare amore e luce, alcune mi spezzano il cuore, ancora adesso. Alcune cose non le ho ancora dimenticate, ma ho iniziato ad affrontarle in modo completamente diverso.
Il 2015 è stato un anno di enorme sofferenza. Non so se sarà il peggiore della mia vita, anche se onestamente me lo auguro. Mi auguro di aver passato un giro di boa a cui non tornerò più.
Non so dire esattamente quando è effettivamente cominciata la discesa nell’inferno. So che ad aprile ero all’inferno e manco me ne rendevo conto. E so che ne sto uscendo adesso.
Per il mio modo di essere più di sei mesi sono tanti, anche se mi rendo conto che non sono poi così tanti: basta guardarsi attorno per rendersi conto di quanti neanche lo sanno di essere all’inferno e di quanti anche se lo sanno non riescono ad uscirne.
Amore e luce. Dopo un lungo percorso, fatto di tante cose, decidi che amore e luce li mandi innanzitutto a te stessa, anche se non ti ami per niente, anche se non sai neanche da dove partire.
Ecco una cosa fondamentale che ho imparato in questi mesi: che c’è la famiglia, che ci sono gli amici, perfino i colleghi e i baristi di fiducia, che ci sono i bravi terapeuti. In questi mesi tutti, ma proprio tutti, hanno avuto una parola per me. Anche quelle che sembravano fuori luogo e facevano male, in realtà andavano bene, perché nulla è a caso.
Ho imparato questo: che quando sei all’inferno per forza di cose ti devi affidare alle parole altrui.
Se la tua migliore amica ti dice che non fai assolutamente schifo come invece pensi, tu le devi credere.
Se tua madre ti dice che non hai motivo per stare male, che è solo un momento, tu le devi credere.
Se la tua psicoterapeuta ti dice che sei una donna in gamba e impegnativa e ancora in gamba, tu le devi credere.
Anche se ti sembreranno lì per lì parole sole parole, questo sforzo di credere e ascoltare chi ti circonda porterà i suoi frutti.
Questa lotta continua contro le tue voci interiori che ti dicono che non vali niente, alla fine la vincerai. La vincerai affidandoti a chi ti è vicino, perché vede le cose da fuori, perché può regalarti un punto di vista non storpiato dalla tue voci interiori (non le può sentire per fortuna sua).
Così arriva il giorno in cui ti guardi allo specchio e finalmente ti vedi: non è una questione di bella o brutta, ma di vedersi. Vedi i tuoi occhi, la luce dei tuoi occhi finalmente brilla di nuovo. Vedi le tue occhiaie, i tuoi capelli che stanno ricrescendo con una piega assurda, vedi i capelli bianchi che spiccano proprio lì davanti. Vedi le tue mani, le mani di una donna adulta, un po’ distrutte perché è troppo che non fai una manicure. Vedi la tua pancia e pensi che devi rimetterti a dieta, e le tue gambe che hanno un po’ perso il muscolo perché non pedali più tanto quanto prima (poco male che le gambe da ciclista un po’ ancora mi fanno senso).
Finalmente, dopo mesi, ti vedi. Il giorno dopo ancora, ed il giorno dopo ancora. Non è una fase, è un cambiamento. In cui ti senti anche bella, in cui ritrovi la tua forza, in cui stai ricostruendo la tua vita, da zero, da capo, una vita nuova.
E poi davanti al Gohonzon pensi a lui, che se n’è andato quando più stavi male, che hai ricercato sperando tornasse da te, ma niente. Pensi a chi è venuto dopo e ai tuoi errori (che continui a vederli e pensarli tali), pensi a tutte le persone che ti circondano, ai bravi e ai meno bravi, e decidi di mandare amore e luce ad ognuno di loro, auguri il meglio a tutti: i bravi li vuoi ancora accanto ed i meno bravi li pensi molto felici lontano da te. Ma al di là di questa distinzione, conta solo come ti senti tu, talmente forte da voler vedere tutti veramente felici, anche chi ti ha ferito più e più volte, perché ci hai creduto, perché gliel’hai permesso.
Ho avuto paura che fosse solo una fase, ho aspettato prima di scrivere perché temevo che non sarebbe durata. Ed invece non è una fase, è un cambiamento.
Quando piango non sono più disperata e non mi sento spersa. Mi sento triste, sento che vorrei un abbraccio, un compagno, ma non la sento più come una cosa impossibile. O forse sì che è impossibile lo credo ancora, ma non è un dolore straziante, perché la mia vita è completa così e se arriverà sarà un valore in più e non un buco da riempire. Tante volte l’ho detta e pensata questa frase, mai l’avevo sentita così.
E così mando amore e luce e poi dimentico, continuamente. Non mi soffermo, avanzo.L’enorme sofferenza di quest’anno la lascio qui.
(Per tutti i riferimenti al buddismo rimando al sito ufficiale della Soka Gakkai dove si possono trovare tutte le informazioni necessarie attendibili)