In questa parte di Blog non ho ancora parlato di Adhd, non che sia obbligatorio. Da quando ho iniziato l’aggiornamento degli articoli, ricevuto la diagnosi, messo in atto decisioni che, va detto, in parte mi conigliavo da un po’, sento l’esigenza di parlare di motivazione e forza di volontà in modo nuovo.
Ho iniziato a scrivere di Adhd per istinto su Instagram, mossa sempre dallo stesso spirito: se sta capitando a me, starà capitando anche a qualcun altrə? Come si sentirà? Solə oppure ha intorno una rete di supporto?
Instagram mi è stato subito stretto ed ho spostato tutto sul Blog Privato, ma non avevo idea quanto avrei scritto e che viaggio sarebbe stato.
Quando ho comprato la prima bici ed iniziato a girare in città, un po’ sola mi sono sentita: come detto tante volte tutte le informazioni erano legate al ciclismo inteso solo come sport, per la maggior parte, indirizzate a uomini, anche i consigli strettamente tecnici sono studiati solo sull’anatomia maschile.
Indubbiamente la matrice di questo approccio va ricercata nella società e, come dimostrato da tantɜ attivistɜ, anche nei libri di medicina. A queste nuove consapevolezze ci sono arrivata proprio grazie al web.
Di poche cose sono certa, una di queste è che se il 15 dicembre del 2016 non avessi aperto questo spazio oggi non sarei qui a rendermi conto di come male si parla di motivazione online.

Come detto in quest’altra parte di Blog, la diagnosi mi ha regalato la libertà, quella libertà di capire che se non sono incapace di attuare certi cambiamenti non è una questione di volontà, ma di biologia.
Ho deciso per la terapia farmacologica, ne sento i benefici nonostante i problemi iniziali (come in qualsiasi tipo di terapia), ma le medicine non cambiano la struttura del mio cervello, non modificano connessioni neurali né tantomeno alterano il mio carattere. Le medicine hanno lo scopo di tenermi concentrata su quello che voglio fare e, nel mio caso, i risultati si stanno vedono nelle piccole azioni quotidiane.
Non smetterò di fare otto cose insieme, portare avanti progetti diversi o leggere dieci libri contemporaneamente: in ogni cosa andrò fino in fondo, per quell’ora quel giorno quella settimana in cui ho deciso di occuparmene. Sembra banale ma non lo è, so anche che questa sottile differenza è difficile da comprendere, come un po’ lo è spiegarla.
In questo processo ormai in atto da settimane, in cui ho scritto tanto, mi sono riletta, in cui ho deciso di cambiare lavoro, mollare certe idee, studiare altre cose, ho cercato di scrivere di motivazione con un occhio attento a chi, come me, è neurodivergente. Ogni tentativo è stato un fallimento.
Parlo di questo sul Podcast: nella prima puntata dell’anno racconto come mi sia resa conto di essere stata io stessa una narratrice tossica parlando di volere è potere; nelle ultime due di come mi sia scattato un click nella testa tale da bloccarmi, per paura di non usare la parola giusta al momento giusto, per il timore di ferire la sensibilità di chi mi segue o essere discriminante in qualche modo.
Il primo grosso ostacolo da me riscontrato è proprio nell’uso della parola neurodivergente in contrapposizione a neurotipicə.
Per spiegare quanto siamo tuttɜ diversɜ è necessario fare delle distinzioni, ma l’uso della parola tipicə mi ricorda molto il concetto di normalità che non condivido. Come spiego dettagliatamente qui, la normalità è una condizione sociale e la società stessa è un insieme di differenze. Personalmente le parole divergente e tipicə mi fanno tornare a questo tipo di riflessione e diventa inevitabile chiedermi quanto io possa risultare discriminante, che è esattamente quello che non voglio.

Questo processo mentale – che per buona pace dei Vostri neuroni ho riassunto all’osso – mi ha portato a rendermi conto che tutta la narrazione sulla motivazione per come viene veicolata, per quello che ho letto fino ad oggi e con tutti i tentativi portati avanti in questi anni, non tiene conto delle diversità umane.
E a pensarci bene, quasi niente della nostra società tiene conto della diversità umana, perché ciò che è diverso si è deciso da tempo essere sbagliato se non addirittura pericoloso.
Se c’è una cosa di cui sono orgogliosa è il mio cercare, da sempre, di portare me stessa e la mia esperienza in quello che condivido. Se in passato nelle mie parole ho commesso degli errori, l’ho fatto sempre partendo da me stessa, nonostante le infinite accuse di essere egocentrica, egoriferita, arrogante e chi più ne ha più ne metta.
Al di là dell’argomento specifico di cui ci si occupa, credo sia doveroso, fondamentale e per niente ovvio, sottolineare che siamo tutte e tutti diversə e che qualsiasi cosa venga detta, scritta, raccontata non può in alcun modo aver valore universale ma sempre relativo e, soprattutto, che ogni cosa va poi adattata al proprio vissuto, al proprio sentire. L’eccezione esiste, non c’è niente di male nell’esserlo a discapito di quello che la società dice o cerca di imporci.
Tra l’altro la società non è un ente a sé stante, un mostro a tre teste da combattere, ma siamo noi stessɜ a formarla con il nostro vissuto. So che è complicato esporsi, non tutte le persone se la sentono e non tuttɜ dobbiamo essere attivistɜ in prima linea, ma parlare anche con una sola persona può cambiare il mondo in cui viviamo. Condividere a tutti i livelli apre la Vita: si può farlo pubblicamente come faccio qui oppure no, proprio perché siamo tutte persone differenti e dobbiamo agire nel mondo che più sentiamo affine.
Tenersi tutto dentro e pensare di essere sbagliatɜ è avvelenare la propria Vita, inutilmente, perché ciò che viviamo è molto più comune di quello che crediamo, ma senza condivisione non lo possiamo sapere.
Per tanto qui sul Blog ho scritto di come non riuscissi alzarmi al mattino, ho scritto obiettivi, condiviso frustrazioni, mi sono sentita incapace di ripetere quel che in passato avevo naturalmente portato avanti.
La rabbia verso me stessa mi stava avvelenando, parlare con altrɜ di motivazione e forza di volontà si è rivelato più volte fallimentare: ora ho compreso che ero alla ricerca di un modello universale da ripetere, che non esiste.
Abbiamo tuttɜ un funzionamento cerebrale diverso (frase che si presta a facili battute mi rendo conto): non c’è bisogno di entrare specificamente nel campo della psichiatra, basta pensare alle proprie materie preferite a scuola, c’è chi amava di più la matematica e chi la storia.
Il cervello umano è complesso da un lato ed anche un po’ sciocco dall’altro (non riconosce un sorriso spontaneo da uno finto), è un insieme di connessioni neuronali riprogrammabili ma non per questo tuttɜ possono fare tutto.
Ogni persona ha i propri limiti, riconoscerli è la chiave.
La fase di conoscenza di sé e quindi di comprensione e accettazione dei propri limiti è totalmente personale, si possono insegnare dei trucchi, qualche metodo, più in generale si può condividere una propria esperienza per trovare spunti di riflessioni da cui partire, ma oltre non si può andare. Neanche unə specialista lavora al posto nostro, nessun specialista seriə si sostituisce al paziente/cliente, piuttosto lə sostiene nel suo percorso di conoscenza e consapevolezza di sé.
L’idea di questo articolo parte dalla mia personale lotta con la motivazione a fare, come alzarsi presto pedalare studiare lavorare in un certo modo, ma il discorso è applicabile ad ogni aspetto che sentiamo come limitante e, aggiungo, forse non tutti i limiti sono nocivi, anzi. Forse proprio osservandoli e cercando di comprenderci in relazione a quella situazione che non riusciamo ad affrontare, possiamo capire molto di noi.
Ci si sente sbagliatɜ perché ci si paragona alle altre persone, affossatɜ in quel concetto di normalità di cui parlavo sopra.
Personalmente mi sono sempre e da sempre sentita sbagliata, in ogni ambito che vivevo. I primi ricordi di questo disagio risalgono all’asilo (ho superato i quaranta da un po’). Seppur consapevole dell’esistenza della diversità, la leggevo in chiave giusto-sbagliato: alla fine si doveva confluire in un comportamento uguale per tuttɜ e quel comportamento sarebbe stato quello giusto.
La prima volta che la psicoterapeuta, durante la valutazione dell’Adhd, ha detto la frase è importante che impari ad accettare certi limiti del tuo funzionamento ho provato solo rifiuto: da sempre cerco di andare oltre me stessa non potevo accettare alcun limite. Perché anche il limite è visto come qualcosa di sbagliato, una mancanza, un’incapacità.

Quello che sto imparando in questo nuovo viaggio è esattamente l’opposto: comprendere come funzioniamo regala forza e aiuta a sviluppare modi attivi per vivere i propri limiti. Non è un subire né una mera rassegnazione, diventa una trasformazione. Forse il concetto stesso di superare un limite è interpretato male da moltɜ, me compresa, ma questa parte di viaggio devo ancora farla, ci sarà tempo di approfondire.
Ora so di essere diversa nel senso letterale del termine, senza ulteriori inutili giudizi. Ho una consapevolezza nuova: non riuscire a fare qualcosa non è sempre sintomo di mancanza di motivazione o di forza di volontà, più spesso è mancanza di conoscenza di sé.
È tanta la felicità per essere arrivata fin qui che credo continuerei a scrivere per ore, ripetendomi inutilmente.
Ed è così tanta questa felicità che mi permetto di augurare a chiunque mi stia leggendo un viaggio di conoscenza di sé tale da sentirsi liberə da ogni convenzione e felice della propria Vita, con tutti i suoi limiti, oggettivi e soggettivi.
(Per chi sente la necessità di approfondire, può commentare qui sotto o scrivermi.)
La Ciclista Ignorante è un progetto che ambisce a diffondere e condividere un nuovo stile di Vita, basato sull’etica, la trasparenza, la contaminazione di idee, un progetto in cui la bicicletta è sempre stato un mezzo e mai il fine. Lo scopo del Blog e di tutto l’universo connesso è incoraggiare le persone che inciampano nei miei contenuti, con uno sguardo attento a chi si sente più fragile, discriminatə, indifesə, impauritə.
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