Con questo (lungo) articolo ho deciso di unire tutto quello che in questi anni ho scritto sul linguaggio inclusivo (termine che non amo più usare e lo spiego proprio in questo testo) e l’uso dello schwa.
Non mi ricordo neanche quando ho effettivamente iniziato ad usare lo schwa: asterischi, x e u non mi piacevano molto ed ho adottato questa altra soluzione. Seppur consapevole che non è la soluzione definitiva, continuo a pensare che sia un segnale importante, che tutti questi sistemi lo siano, per dare reale rappresentanza della società che viviamo, perché le parole creano identità. Chi studia il linguaggio ha dimostrato come queste influenzano la cultura, che a sua volta influenza e modifica il linguaggio. Un esempio molto semplice è l’uso degli inglesismi nella lingua italiana.
Prima di proseguire è necessario fare alcune premesse.
La prima è che al di là di qualsiasi affermazione dell’Accademia della Crusca e di qualsiasi altrə studiosə di linguaggio e comunicazione, il plurale maschile non è affatto sovraesteso e non si può distinguere la grammatica dal genere come più volte affermato. Ogni volta che leggo quest’ultima affermazione sento il rumore delle unghie di quando ci si arrampica sugli specchi.
La seconda, e più recente, riguarda il termine inclusività.
Come letto su Questioni di un certo genere (un libro che mi ha aperto un mondo nuovo), se si parla di inclusività si presuppone una normalità che accoglie: credo che questo sia uno degli stereotipi più duri da sgretolare. La normalità è una convenzione sociale, forse dettata da giochi di potere o dalla paura della diversità, generando discriminazioni, distinzioni di classe, di genere. Si sono creati standard per convenzione sociale e tutto ciò che non ci rientra viene etichettato arbitrariamente come strano, diverso e deviante.
Ho usato il termine inclusività e i relativi aggettivi in moltissimi miei discorsi, per rendermi conto che alla fine mi stavo comunque mettendo su un piedistallo, che per quanto basso e irrilevante, mi elevava rispetto a quello che non era normale.
Per quello ho deciso di adottare un nuovo modo di definire il linguaggio, ispirata da Acanfora: linguaggio della diversità.
La nostra società è l’insieme di tante diversità che coesistono.
Una delle questioni che mi ha portato anni fa a parlare di parole e linguaggio è il credere diffuso che questa sia una questione di poco conto. Ogni volta che sul web si solleva la questione dello schwa e della neutralità della lingua, c’è sempre qualcunə che dice ci sono cose più importanti.
Uno dei mali del nostro tempo è questa contrapposizione continua, la divisione tra buono e cattivo, tra giusto e sbagliato: discutiamo tra di noi senza poi occuparci praticamente di nulla, guardiamo il dito e non la luna.
È necessario ragionare diversamente: una questione non ne esclude automaticamente un’altra, oltre ad essere collegate. Le parole creano identità, senza identità è difficile occuparsi di questioni considerate più importanti come la parità salariale o la violenza di genere, giusto per fare due esempi concreti delle questioni più dibattute.

Personalmente ritengo la mancanza di neutro nella nostra lingua una questione fondamentale.
Tutte e tutti noi abbiamo un nome, dato alla nascita e che ci identifica nella nostra società: io mi chiamo Adriana, se qualcuno mi chiama Arianna o Giovanna (esempi tratti da storie vere) non mi giro e se lo faccio la prima cosa che dico è Ma stai parlando con me?!?
Ogni parola ha un suo significato intrinseco: non chiamiamo un albero casa, e non diciamo macchina per dire trattore. La mancanza di parole adatte a definire intere categorie di persone è un problema, è negare l’esistenza, l’identità, cancellare quello che di fatto non vogliamo vedere.
L’articolo più famoso dell’Accademia della Crusca è stato scritto da una persona sola, non voglio neanche metterla sul genere, perché non è una questione di genere: una persona sola. Non c’è stata un’analisi sociale, un confronto, una tavola rotonda, se c’è stato non lo sappiamo (ma da quello che è stato scritto qualche dubbio sorge): una persona sola ha firmato quell’articolo in cui dice di non confondere la grammatica con altre questioni.
La grammatica però vive nella nostra quotidianità: c’è stato (ed è ancora attuale) un intero movimento che ha sollevato la questione dei pronomi sui social, perché c’è chi non si identifica nel suo sesso biologico. Non parliamo solo di uomini e donne, la questione va molto al di là del binarismo di genere e quello che non vogliamo capire è che è un proprio diritto identificarsi come si vuole.
L’autodeterminazione delle persone non deve essere oggetto di dibattito ma un diritto acquisito!
Ho impiegato un anno e mezzo a comprendere l’importanza dei pronomi e ci ho messo così tanto perché io sono fortunata: sono nata donna, mi identifico con il sesso biologico, ossia sono cisgender, etero.
E le parole sono così importanti che bisognerebbe approfondire perché si è adottato il termine cisgender in aggiunta a eterosessuale: la contrapposizione etero e omosessuale ci riporta ancora una volta al binarismo di genere. Ci sono le donne e ci sono gli uomini, basta. Ci possono essere le donne e gli uomini omosessuali, basta.
Non è così: il binarismo di genere è una convenzione sociale nata intorno all’Ottocento, con l’industrializzazione e la necessità di fare più figlie e figli per riempire le città e le fabbriche. Ovviamente sto molto semplificando il discorso, ma di fatto da quel momento in poi gli unici rapporti sessuali socialmente accettati erano quelli a fini riproduttivi e di conseguenza la figura della donna è diventata definitivamente quello di madre, per non dire incubatrice. Non esisteva l’idea di fare sesso per piacere, tanto meno era ammesso intrattenere relazioni con persone dello stesso genere. Non oso immaginare come fossero viste le persone trans.
Studiare un po’ di più, leggere e ascoltare, potrebbe aiutarci a capire che la questione schwa non è legata solo all’uso corretto del maschile e femminile, se la parola sindaca o architetta suona cacofonica o meno. Esistono tantissime identità che non hanno spazio in una lingua che non prevede un neutro, che deve spaccare in due categoria la società e che se non ricadi in una delle due allora sei stranə, diversə, fai questioni di niente perché ci sono cose più importanti.
Quelle cose più importanti però non riguardano solo donne e uomini, intese come nate alla nascita, riguardano le persone e come possono essere affrontate se quelle stesse persone non hanno identità e non possono essere adeguatamente definite?

Nei vecchi articoli su questo argomento scrivevo non è importante comprendere, quello che conta è sostenere e ne sono ancora fermamente convinta.
Ho avuto la testardaggine di andare fino in fondo, di leggere cose che non capivo, approfondire comportamenti che mi erano incomprensibili e sono stata fortunata: sono arrivata ad immedesimarmi fino a stare male ed ho compreso, per lo meno in minima parte, un mondo che mi è lontano. Ed è così lontano solo perché sono fortunata, lo ripeto perché è importante: non c’è merito nel nascere donna, riconoscersi come tale ed essere cisgender. È solo privilegio.
Ma potete anche non farlo, non essere testardɜ, potete non voler approfondire ma dovete avere rispetto per la Vita altrui, non dovete sminuirla in nessun modo, dovete riconoscere il Vostro privilegio di non vivere in certi corpi e certe discriminazioni e soprattutto dobbiamo tuttɜ imparare ad ascoltare.
Questo è il motivo per cui quasi tutti i social hanno inserito la possibilità di mettere i pronomi nelle proprio bio.
È fondamentale rispettare l’autodeterminazione di ogni essere umano, al di là della propria convinzione personale.
Non uso mai il verbo dovere, se l’ho fatto è con cognizione di causa.
Ascoltare è la chiave per capire come rapportarci con le altre persone, capire come si identificano, rispettarle nelle loro scelte. Ascoltare e confrontarci nelle nostre diversità – perché ricordo non esiste una normalità – è il primo passo per comprendere che non importa sentire la questione sulla propria pelle, c’è, è un’urgenza della nostra società perché le parole che usiamo definiscono la società in cui viviamo.
Ci sarebbe moltissimo da dire, ogni volta che tento di scrivere un articolo riassuntivo mi ritrovo a rendermi conto di quanto la questione sia articolata.
So di essere stata ripetitiva in molti punti, ma ritengo fondamentale continuare a ribadire questi concetti, quasi fino a sgolarmi, perché è urgente e fondamentale rispettarci reciprocamente per costruire una società equa in tutti i suoi aspetti.
Qui sotto lascio qualche info semitecnica sull’uso dello schwa e una bibliografia tutta a modo mio che mi ha permesso di arrivare ad oggi con questa consapevolezza.
Qualche informazione semitecnica
× Lo schwa non è un’invenzione radical chic: è un simbolo internazionale con un suono ben preciso. Può risultarci difficile pronunciarlo, io per prima, ma non è un’invenzione del momento.
× Lo schwa ə e lo schwa lungo з sono stati introdotti da tempo sulle tastiere degli smartphone: personalmente uso la GBoard di Google su Android. Questo rende più facile scriverli da cellulare piuttosto che da pc.
× L’utilizzo corretto dovrebbe essere lo schwa ə per il singolare e lo schwa lungo з per il plurale: qui sul blog lo faccio, ma in realtà si sta adottando lo schwa ə per entrambe le forme.
× Lo schwa lungo з viene spesso sostituito dal numero 3: per chi lo usava soprattutto prima delle implementazioni delle tastiere su smartphone era più pratico.
× In generale assimilare l’uso dello schwa non è una cosa immediata: dopo due anni se scrivo velocemente (soprattutto sui social) può scappare il plurale maschile sovraesteso. Non è neanche impossibile, è un allenamento, soprattutto se si sviluppa sensibilità verso chi legge i nostri contenuti, viene naturale starci attentз.
All’inizio scrivevo tutto l’articolo normalmente e alla prima rilettura correggevo. Questa fase l’ho superata ma quando mi incarto in certe parole le scrivo come vengono e ci torno in un secondo momento. Di recente sto anche cercando di implementarlo nel parlato (podcast), ma non sapendolo pronunciare taglio semplicemente l’ultima vocale.
× Per l’appunto, uno dei limiti dell’uso dello schwa è la pronuncia: si può decidere di declinare le parole in tutte le forme o, come detto, tagliare l’ultima vocale. Ad esempio buongiorno a tutte, tutti e tutt, tecnica adottata da moltз attivistз online da cui ho preso spunto.
× Un altro limite riscontrato è la lettura per interi libri, molte persone hanno dichiarato di confondere lo schwa con la e. Mia opinione personale mi sembra un non-problema: se si confonde in lettura con il femminile non è così grave, il senso del testo non cambia. Un aspetto da considerarsi, su cui non ho una soluzione, riguarda chi è dislessicə. Penso che sia solo questione di allenamento, ma non ho esperienze dirette.
× Alcuni suggerimenti per scriverli da pc (non ho idea se esistano metodi più moderni, trovando il mio metodo non mi sono molto evoluta negli anni)
- tenere una nota/post-it virtuale sul desktop con i simboli e fare dei gran copia e incolla
- impostare una combinazione di tasti per digitarli, dipende dal programma di scrittura che utilizzate
× Alcuni suggerimenti per scriverli da smartphone
- come dicevo gli smartphone hanno implementato le tastiere, basta tenere premuta la e (dipende dal modello di telefono e dal sistema operativo, su modelli un po’ datati può non funzionare)
- sempre sulla GBoard c’è il sistema di blocco degli appunti copiati, ne ho uno con questi simboli (come spiegavo prima per il pc)
× Online troverete molto sull’argomento, anche su come impostare altri tipi di layout tastiera per digitarli, ho trovato tutto un po’ macchinoso e non ne riporto nessuno in particolare ma, al contrario di quel che si pensa, la questione neutro e schwa va avanti da tempo e non è un’invenzione radical chic del momento.
× Prendendo ad esempio la frase Buongiorno a tutti, di seguito altri modi comunemente adotatti per rendere un testo neutro
- la forma estesa Buongiorno a tutte e tutti
- la forma contratta Buongiorno a tutte/i
- l’asterisco Buongiorno a tutt*
- l’uso della u Buongiorno a tuttu
- l’uso della ics Buongiorno a tuttx
- cambiare la forma della frase Diamo il buongiorno a tutte le persone presenti
Su quest’ultimo esempio mi sono totalmente incartata, ho impiegato un paio di minuti per formularlo e forse ho reso la frase troppo articolata.
Bibliografia anomala
Non sono una capace di distinguere la persona da quello che dice, infatti in questo articolo non ho nominato l’ideatrice dell’uso dello schwa, non provo particolare stima e ritengo che si sia un po’ persa per la tanta popolarità (ovviamente è una mia idea personale).
Acanfora l’ho scoperto su Questione di un certo genere, citato prima e come detto libro stra illuminante che consiglio a chiunque (Il Post non mi paga e non ho alcun link affiliazione). In realtà non conosco molto di lui, non ho idea di quali siano le sue idee in generale.
Fatico sempre a citare le fonti perché nel tempo mi è capitato di rendermi conto che certe azioni erano più ricerca di popolarità che altro. Ho fatto questa piccola eccezione perché al di la di tutto mi è bastata la home del suo sito per rendermi conto di quali altri pregiudizi interiorizzati avessi e di quanto l’uso delle parole sia fondamentale, anche una parola apparentemente innocua come inclusività.
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